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Intervista a Lorenzo Ornaghi. Educazione. Un'emergenza?   versione testuale
Lorenzo Ornaghi
Lorenzo Ornaghi
Emergenza educativa: il rettore dell’Università Cattolica del Sacro Cuore Lorenzo Ornaghi interviene su numerosi temi legati al mondo dell’educazione.
Come arrivano in un’Università gli allarmi relativi all’emergenza educativa? Esiste secondo lei questa emergenza? Quali sono i segni che la mettono in evidenza?
Che esista un’emergenza educativa e che essa si manifesti in modi non solo numerosi e multiformi, ma anche assai pervasivi, è constatazione sempre più diffusa. Lo è tra i genitori e, in particolare, tra chi opera nel mondo dell’educazione scolastica. Lo è anche nell’opinione pubblica e sugli strumenti di comunicazione, che ormai con grande frequenza registrano alcuni aspetti di una simile emergenza, talvolta amplificando i casi abnormi o più vistosi. Poiché siamo di fronte (o – per essere più precisi – pericolosamente in mezzo) a una vera e propria ‘emergenza’, credo che sia importante capirne i fattori profondi e, pur senza drammatizzare, saperne cogliere anche i più piccoli segnali di allarme. Il ‘problema’ educativo si è rapidamente trasformato in ‘emergenza’ non solo – come accennavo – per la pervasività sociale delle sue conseguenze, ma anche perché è sembrato cogliere di sorpresa una società (se così si può dire, in termini sintetici e forse un po’ troppo generici e deresponsabilizzanti) disattenta o impreparata. Personalmente sono convinto che l’Università debba riflettere senza infingimenti o illusioni sulla sua odierna funzione educativa, e debba vigilare il più possibile prestando ascolto ai tanti segnali di allarme. Anche nelle aule universitarie si riscontra in questi anni una mutata ‘disposizione d’animo’ (non saprei definirla in altro modo) da parte degli studenti. Non si tratta solo del pur innegabile ridimensionamento delle conoscenze, o della debolezza del metodo di studio, acquisiti nel percorso di istruzione media superiore. Ritengo si avverta piuttosto un diffuso, talvolta cosciente e dolorosamente vissuto, smarrimento di motivazioni profonde. Questo rende i giovani più incerti di fronte alle impegnative scelte legate al curriculum accademico e alla vita professionale, meno capaci di orientarsi in un contesto sociale che, va riconosciuto, si rivela essere sempre più freddo (perché non appassionante) e talvolta ostile, sempre più indeterminabile e, almeno all’apparenza, immodificabile.

Quali sono i fattori che spiegano l’emergenza educativa? Perché siamo a questo punto?
L’emergenza educativa, proprio in quanto fenomeno sociale non riducibile semplicemente a una somma di comportamenti individuali, può essere spiegato con una molteplicità di cause e fattori, già a partire dalle conseguenze non previste o inintenzionali delle riforme che tutti gli ordini di istruzione scolastica (e ora universitaria) hanno conosciuto in tempi diversi e con differenti modalità. Ma, tra le molte cause, una mi sembra richiedere attenzione più delle altre. Ed è la causa che probabilmente dà conto, con maggior precisione, del perché la questione educativa sia un’emergenza di carattere ormai pandemico. Tale causa va soprattutto cercata, a mio parere, nella realtà odierna di incertezza, che ciascuno (e ogni giovane, in particolare) avverte in sé e attorno a sé, nella frammentazione e dispersione delle identità e dei rapporti familiari e intergenerazionali, nella difficoltà delle istituzioni – di pressoché tutte le istituzioni, siano esse politiche o sociali – a rispondere positivamente alle domande e aspettative che, palesemente o in modo implicito perché difficile da formulare, si originano dall’incertezza e dalla frammentazione. Ci troviamo in uno stato di ‘emergenza’, poiché – come richiamavo, di sfuggita, nella precedente risposta – siamo stati disattenti o impreparati, affidando interamente a una realtà esterna – poco importa se questa fosse da identificare con la politica, la società, o, genericamente, gli ‘altri’ – la responsabilità di immaginare e costruire i luoghi e le forme più idonee di educazione. In ognuno di noi è prevalsa una colpevole trascuratezza nei confronti dei giovani, accompagnata dalla crescente superficialità o dal conformismo nella lettura dei «segni dei tempi». Un solo esempio fra i molti possibili: dopo la caduta del muro di Berlino, ci si è convinti (troppo presto) che la storia fosse finita, e che il modello occidentale avesse guadagnato tutto lo spazio della ribalta mondiale. In verità, se alcune ideologie sono effettivamente venute meno, ciò è accaduto per loro intrinseco esaurimento e non a seguito di una tangibile superiorità delle alternative. Il pianeta, nel frattempo, ha sperimentato le trasformazioni delle nuove tecnologie, della comunicazione e dei trasporti, aprendosi alla ‘globalizzazione’ (con tutte le sue positive opportunità e, congiuntamente, i suoi pericoli o limiti). In sostanza, a me pare che l’emergenza educativa sia esplosa in Italia nel momento in cui si è allentato il rapporto dell’educazione con la cultura. O, forse, nel momento in cui la cultura del nostro Paese – non diversamente da quella della grandissima parte dei Paesi dell’Occidente – è sembrata perdere il suo ‘senso’ costitutivo e tuttora essenziale: ossia il poter e saper essere, in ogni circostanza, al servizio della persona e della collettività.

Quanto i mass media contribuiscono a creare il clima di allarme di cui siamo testimoni? Si tratta di un allarme sull’educazione o sulle nuove generazioni in generale?
Il ruolo dei mezzi di comunicazione di massa, com’è noto, pesa in modo rilevante sulla ‘costruzione della percezione’ dell’emergenza di cui stiamo discutendo; così come, in generale, pesa sulla nascita, sul rafforzamento e sui piccoli o grandi mutamenti di ogni rappresentazione sociale. Quello, però, che non andrebbe favorito bensì decisamente contrastato, è proprio il tono allarmistico con cui si trasmettono notizie di negligenze, manchevolezze o anche violenze, legate al mondo della scuola e dell’educazione. Il rischio che si sta correndo, infatti, è duplice. Per un verso, si alimentano e si accrescono le paure e i pregiudizi dell’opinione pubblica, senza che i mezzi di comunicazione, di solito, accompagnino o sollecitino una riflessione non banale su tali fatti. Per altro verso, si possono generare effetti perversi di emulazione, quasi che il palcoscenico mediatico, soprattutto nelle percezioni e rappresentazioni dei più giovani, surroghi interamente la realtà. Di fatto, per i mezzi di comunicazione, i confini tra l’interesse per l’educazione e quello per le nuove generazioni sfumano e talvolta si confondono. Con il risultato che, il più delle volte, ci troviamo davanti a una ‘banalizzazione’ dell’emergenza, anziché alla ricerca delle sue cause e delle risposte più opportune per fronteggiarla. A mio giudizio, invece, proprio perché l’emergenza educativa è un fatto sociale, essa riguarda ognuno e tutti, esige l’attenzione sia dei cittadini sia delle istituzioni. Non si fronteggia adeguatamente una tale emergenza, se non siamo consapevoli della nostra identità come comunità, e se – soprattutto – non disponiamo di un’idea e una visione di quale vorremmo che fosse la nostra comunità di domani.

Che cosa pensa dei giovani che incontra in Università?
I giovani, che oggi passano per le aule universitarie, hanno per lo più qualità positive e grandi potenzialità. In misura non dissimile da altre epoche storiche, mi verrebbe da aggiungere. Forse, diversamente da età precedenti e nonostante le prime apparenze, sono costretti a subire un ambiente o un contesto sociale che, come già accennavo, sembra poco propenso a destare emozioni e passioni, a rafforzare desideri e aspettative, a far nascere la voglia di cambiare in meglio ciò che può essere cambiato. La realtà, che i giovani vivono, sembra circondarli senza rispettare i tempi della loro formazione e maturazione; li vuole subito adulti, cioè pronti a entrare nei circuiti del mercato e del consumo senza preoccuparsi troppo di metterli anche in condizione di lavorare e produrre con motivazioni e soddisfazione. Della durezza del contesto sociale i giovani sono consapevoli. E forse tendono ad accettarla o subirla come un dato immodificabile. Qui si apre la forbice, larga e pericolosa perché disorientante, tra la registrazione realistica dell’ambiente in cui i giovani crescono e il loro bisogno (anzi la loro ricerca – onesta e intelligente, anche se troppe volte inquieta perché inappagata) di profonde motivazioni ideali e spirituali. Motivazioni non astratte o soltanto dichiarate, bensì incarnate in persone concrete. I giovani chiedono guide, maestri e testimoni. Ne avvertono la necessità, per poter dare senso e risposte alle proprie aspettative. Con quel coraggio che i giovani hanno e che non vogliono perdere.

Qual è oggi il ruolo educativo di un’Università? Quanto riesce a far sperimentare il gusto del pensiero, la passione per la ricerca, la responsabilità della cultura verso il futuro del Paese e dell’umanità? È possibile oggi, attraverso lo studio e la ricerca, far percepire ai giovani l’importanza dell’intelligenza nel costruire il proprio progetto di vita?
All’ultimo interrogativo rispondo senza esitazioni: sì. I giovani, anzi, devono ricevere dai meno giovani quell’insegnamento che è forse più durevole di ogni altro: vale a dire, la testimonianza di volere e sapere costruire – per quanto possibile – la propria vita, progettandone con il cuore e la ragione il domani. Non si può, come talvolta sembra, solamente ‘lasciarsi’ vivere. L’intelligenza nel costruire la propria vita implica pensiero, metodo e responsabilità. Richiede una visione culturale sempre aperta. L’Università gioca certamente un ruolo cruciale nel trasmettere e far crescere simili orientamenti. E questo ruolo essa deve mantenere anche in circostanze, come le attuali, non sempre favorevoli, sia per la difficoltà del sistema formativo nel suo complesso e dell’‘atmosfera sociale’ di cui abbiamo accennato, sia per le incalzanti riforme che da alcuni anni hanno interessato il mondo universitario. Tali riforme, pur contribuendo a migliorare in alcuni aspetti il percorso formativo, lo hanno reso piuttosto instabile a causa di continui cambiamenti e revisioni. Soprattutto, rischiano di far passare in secondo piano il nesso strettissimo, e oggi sempre più necessario, tra formazione ed educazione.

Che cosa dovrebbe fare la società per fare la propria parte sulla questione educazione?
Credo di aver già risposto in parte. Sulla questione educazione vi è innanzitutto la responsabilità – ma anche la bellezza di una missione e di un impegno insostituibili – delle famiglie, degli educatori a tutti i livelli scolastici, della persona stessa che viene educata. Non vi è dubbio, peraltro, che in questa nostra fase storica le grandi questioni, e in particolare quelle che condizionano il futuro di un’intera comunità, non possano non essere di interesse della società nel suo complesso, oltre che delle istituzioni politiche. Perché la politica non commetta troppi errori rispetto al tema dell’educazione, è necessario che la società faccia sentire la sua voce. E la dovrebbe far sentire, ricominciando a far capire che l’educazione della persona è il centro di ogni percorso scolastico. La scuola non è una più o meno lunga pista di decollo verso una professione, ma rappresenta la fase decisiva della maturazione della personalità. E, con essa, della formazione – in senso proprio e per nulla convenzionale o ideologico – del cittadino.

Oggi si parla tanto di questione antropologica: in che modo il mutare della concezione dell’uomo influisce sulla questione educazione? Come, nell’attuale contesto culturale, tornare a dare ragioni di senso alla vita delle giovani generazioni?
Se è corretto ciò che si è fin qui sostenuto, è allora evidente che la questione educativa si colloca al cuore della questione antropologica. Le modalità con cui ciascuno di noi concepisce se stesso e il proprio rapporto con il mondo sono inevitabilmente contrassegnate dal percorso educativo sperimentato. Le tendenze più ampie, che registriamo considerando le dinamiche complessive manifestate dalle generazioni attuali, ci permettono di affermare quanto una deriva relativistica nella comprensione dell’umano e nella sua più autentica promozione stiano rischiando di compromettere il futuro e la felicità di innumerevoli uomini e donne. Abbiamo già fatto cenno a simili pericoli. Per reagire, fornendo nuove «ragioni di senso» ai giovani, occorre inevitabilmente riavvicinare loro – e noi stessi – alla riflessione e alla ricerca della verità sull’uomo. Il che porta a un passo ulteriore. Che cosa, infatti, dà senso alle nostre vite? Che cosa ci motiva a studiare, lavorare, spendere il nostro tempo con le persone care, aiutare il prossimo? Io credo si debba rispondere, senza autocompiacimento ma con semplicità e coraggio: l’amore. Come insegna Benedetto XVI nella sua prima Enciclica, Deus Caritas est, dobbiamo comprendere che solo recuperando la consapevolezza profonda del bene umano, della sua bellezza e della sua concreta possibilità, saremo in grado di accettare le sfide poste dalla realtà contemporanea. Solo intrecciando nuovamente il pensiero e l’amore, la ragione e l’umanità, potremo davvero renderci testimoni del senso più autentico della vita, per – e insieme con – le giovani generazioni.

*riportiamo alcuni stralci di “Educazione. Un'emergenza?” Paola Bignardi a colloquio con 13 protagonisti Bignardi Paola, Editrice La Scuola