La sentenza della Corte europea di giustizia di martedì 18 ottobre, che ha sancito il divieto di brevettabilità per l’utilizzo di embrioni umani a fini industriali e commerciali, ha aperto un’essenziale questione antropologica e giuridica: l’embrione è soggetto di diritto? «È talmente vera la soggettività giuridica dell’embrione che è prevista in una specifica norma nella direttiva europea del 1998», risponde Andrea Stazi, docente di Diritto comparato presso l’Università europea di Roma. «La sentenza della Corte di Lussemburgo fa riferimento a questa norma, e ci fornisce un’importantissima interpretazione estensiva del concetto di embrione, includendo anche gli ovuli non fecondati quando contengano un nucleo di cellule umane». La Corte Ue interpreta il diritto comunitario per assicurarsi che venga applicato nello stesso modo in tutti i Paesi dell’Unione. Questo determina che la sentenza sia destinata a connotare in maniera rilevante l’ordinamento comunitario. «L’interpretazione della Corte è destinata ad avere un’efficacia veramente pervasiva, anche al di là del caso specifico», commenta Filippo Vari, professore straordinario di Diritto costituzionale. «Con questa sentenza, veramente epocale, la Corte supera la visione fondata sul soggetto di diritto, affermando che l’embrione è essere umano e come tale portatore della dignità tipica degli esseri umani che è uno dei princìpi fondamentali e fondanti dell’Unione europea». Ma non è tutto. Per Vari con questa decisione si sgombra anche il campo da tutte quelle teorie capziose che volevano introdurre distinzioni tra le varie fasi dell’embrione così da poterne giustificare l’utilizzo. «E’ stata riconosciuta continuità all’essere umano, arrivando fino alle sue primissime fasi», spiega Alberto Gambino, ordinario di Diritto privato. «In questo modo, qualificando in termini sempre più completi l’essere umano, se ne è ampliata la sfera di protezione». Qual è la ratio della sentenza? «I brevetti sono procedimenti legali per garantire l’esclusiva all’inventore di un nuovo ritrovato o procedimento tecnico – continua Gambino –. Abbiamo quindi chiaramente a che fare con cose, con applicazioni, non con soggetti, esseri umani. Dire che non si può brevettare ciò che viene dalla vita significa riconoscere che non sono cose, ma enti dotati di soggettività giuridica. Di qui a dire che sono soggetti di diritto, quindi, il passo è breve». Una parte consistente della dottrina giuridica europea aveva già dimostrato una spiccata sensibilità verso la tutela dell’embrione, ora ampiamente recepita dalla Corte. Non va però dimenticato che questo riconoscimento non estende il divieto anche al fare ricerca utilizzando o distruggendo embrioni umani ma vieta solo la brevettabilità dei risultati. La decisione si pone come importante paletto per disincentivare le lobby farmaceutiche, ma, più realisticamente, dirotterà gli investimenti verso quei Paesi che non hanno un’opportuna normativa a tutela dell’embrione.