A oltre 48 ore dal terremoto, ieri sera, le immagini dal Nepal raccontavano ancora di uomini seduti sulle rovine della loro casa, impotenti, disperati, il volto fra le mani. Sotto a quelle rovine, a Kathmandu e ancora più nei villaggi attorno, non raggiunti ancora e isolati, sta un numero non calcolabile di dispersi. Almeno seimila, secondo la Caritas nepalese. Forse più. Morti, o intrappolati e senza possibilità di salvezza. Perché una cosa che si nota scorrendo le foto dal Nepal sul web, è la quasi totale assenza di ruspe e mezzi di soccorso: civili e soldati sollevano a braccia le travi delle case crollate, strisciano a fatica sotto ai soffitti schiantati dei palazzi rasi al suolo. Sembra un terremoto come quelli di cento anni fa, in Occidente: quando i soccorsi arrivavano in tempo solo per seppellire i morti.
Il sisma ha colpito un Paese molto povero, dove metà della popolazione vive con un dollaro al giorno, e pieno di bambini: sono bambini il 40% dei nepalesi, e secondo Unicef almeno un milione di loro vive nella zona devastata. Mancano elettricità e acqua potabile, le scosse si susseguono, piove, e di notte fa freddo: il rischio, per centinaia di migliaia di piccoli scampati, è di morire per strada, in attesa che arrivino gli aiuti. I media raccontano ampiamente il dramma degli alpinisti dispersi nel gruppo dell’Everest, e l’affannato via vai degli elicotteri, ma nella valle di Kathmandu ci sono interi paesi ancora senza soccorsi. Migliaia di case crollate, e padri che sanno che i loro figli sono lì sotto, e, forse, vivi; ma non c’è nessuna Protezione civile, a tirarli fuori.
Un terremoto, come quelli di cent’anni fa. Strade inagibili, comunicazioni interrotte, telefoni muti. E ha ragione Reinhold Messner a denunciare che non ci sono vittime di serie A e di serie B, e che la tragedia più grande non è sull’Everest, ma nei paesi delle valli, da cui tutto tace, e nessuno nemmeno chiede aiuto. Il fatto però che decine e decine di alpinisti occidentali siano rimasti coinvolti nella tragedia del Nepal ha avuto il risultato che se ne parli, da noi, che ce ne sia ampia eco sui giornali. Altrimenti, avesse lo stesso sisma colpito un Paese dell’Africa profonda, quattromila o seimila morti africani non sarebbero bastati per fare accendere i nostri riflettori.
Anche la macchina dei soccorsi internazionali sembra per il momento muoversi a fatica, fra difficoltà logistiche estreme. Le Ong internazionali e la Caritas rilanciano appelli su appelli per la popolazione nepalese, e per i suoi figli. Un Paese giovanissimo, età media vent’ anni (cioè, per ogni quarantenne un neonato); e un terremoto che gli si è avventato contro dagli abissi, come se le vette del tetto del mondo si fossero scrollate di dosso, giganti infastiditi, gli uomini.
Vertiginose quelle cime, e altrettanto enorme il boato dagli inferi, racconta sgomento chi c’era. Sui sismografi della regione sono rimasti i tracciati di quegli interminabili secondi: gli aghi impazziti hanno preso a disegnare il sussultare violento del suolo – come se la terra, sotto, si fosse rivoltata.
Il gigante, la spaventevole forza della natura, si è abbattuto su un popolo povero e per quasi metà di bambini. Il grido che sale da Kathmandu chiede aiuto a noi, gente del mondo ricco e invecchiato, e chiede di fare in fretta: occorre salvare almeno chi non è rimasto sotto le macerie, occorre proteggere i figli dal freddo. «La sfida più grossa sono i soccorsi – ha ammesso un alto funzionario nepalese – esortiamo i Paesi stranieri a fornirci materiali e team medici, siamo davvero disperati ». Siamo davvero disperati. Non è frequente che una richiesta di soccorso sia espressa in maniera così umile: come da un popolo in ginocchio, a mani nude contro un gigante. Il grido che si leva dal popolo di Kathmandu, sembra la voce stessa di un bambino.