Davanti a un nuovo anno che inizia, almeno quando non si è più giovani, la tentazione può essere di guardare al mondo a e ai suoi mali e di dirsi che la sofferenza, la povertà, la violenza saranno, nell’anno che viene, esattamente le stesse del vecchio: come se la vita fosse inesorabilmente sospinta dalla forza opaca di ciò che noi cristiani chiamiamo peccato. Anche il titolo del messaggio per la Giornata della Pace pronunciato ieri dal Papa, "Non più schiavi, ma fratelli", ad ascoltarlo distrattamente potrebbe non smuovere da questo tacito fondo di rassegnazione. Non più schiavi, ma fratelli? Se pensiamo alle feroci guerre in atto, alle esecuzioni, alle prigionie, alle persecuzioni contro le popolazioni cristiane e appartenenti ad altre minoranze religiose, potremmo dirci - magari non ad alta voce, ma fra noi - che sì, sarebbe bello essere tutti fratelli, e però un simile proposito non è che un’utopia.
Ma nell’Angelus del primo giorno dell’anno il Papa pare avere voluto sfidare proprio questo dubbio amaro che cova in non pochi: la pace è sempre possibile, ha affermato, e alla radice della pace, ha aggiunto, «c’è la nostra preghiera». La pace dunque come un dono, come grazia da implorare: giacché nemmeno la più perfetta osservanza della legge, da sola, basterebbe a costruire la pace fra gli uomini («La legge infatti, privata della grazia, diventa un giogo insopportabile», ha ricordato Francesco).
Affermazione questa che spiazzerebbe tanti, pure onesti , pure gente di buona volontà. Il massimo della rettitudine e del rigore "secondo il mondo" non basterebbe comunque a salvarci, se non accompagnato da una domanda umile e inerme di Cristo - che è la sola nostra pace. E dunque il Papa, in quest’anno che nasce, ci ridice che l’unica radice della pace sta nella preghiera. Contro l’inclinazione antica e oscura che abbiamo in noi, talmente nel fondo di noi che spesso nemmeno la riconosciamo, c’è un solo antidoto, ed è l’ammettere che abbiamo bisogno di Dio. Contro quella radice che ostinatamente ritorna nella storia dei popoli e spinge a guardare all’altro come a una cosa, e a sopraffarlo e a possederlo e a opprimerlo, la sola speranza concreta e, diremmo, carnale non è nei codici più meditati e perfetti, ma in un bussare insistente alla porta di Dio: «Liberaci dal male», come recita il Padre Nostro.
In fondo, anche molti degli uomini, e perfino dei cristiani, che sinceramente detestano l’oppressione e la violenza, di fronte all’idea che la pace sia grazia, e non soltanto opera e merito nostro, recalcitra. Come sarebbe? Basterebbe, dicono, rispettare la legge, basterebbero sistemi sociali giusti, basterebbe essere buoni. Ma anche questa presunzione degli onesti allontana la pace.
Perché in fondo, e lo si impara spesso solo da vecchi, in ogni luogo in cui vivano uomini, a cominciare da una famiglia, la pace inizia davvero solo quando la si domanda, come mendicanti, a mani vuote. Immaginate una casa piena di incomprensioni e rivendicazioni, in cui il padre si affidi puramente alla legge, cioè al rigoroso rispetto dei doveri di ciascuno; e magari, anche, tutti obbediscano, e la vita si svolga ordinata come il traffico a un incrocio ben regolato da un vigile meticoloso. Ma si amerebbero davvero di più, si perdonerebbero davvero di più in quella casa? O la coscienza di essere ciascuno nel giusto non irrigidirebbe invece ancora di più gli animi?
Alla radice della pace invece, ci testimonia Francesco, «sempre c’è la preghiera». Sempre c’è una domanda di figli al Padre. Che questa coscienza ci accompagni, come scritta dentro, nell’anno nuovo che inizia e che, a guardarlo con gli occhi del mondo, può sembrare fatalmente uguale al vecchio. La speranza comincia dal fondo interiore di uomini semplici, di uomini che sanno di avere bisogno di Dio; la speranza di questo nuovo anno comincia sommessamente, in migliaia di silenziose preghiere.