Bisogna aver fiducia nell’uomo, se si vuole inviare un doveroso messaggio di speranza a tutti coloro che nel nostro tempo si sentono come schiacciati dalla paura, in una delle tantissime forme (militare, economica, tecnologica, sanitaria, spirituale, ecc.) che essa oggi può assumere. Questa potrebbe essere una delle formule con cui riassumere il senso del discorso pronunciato a Strasburgo da papa Francesco in occasione della sua visita al Parlamento europeo: un discorso che va riferito – come il Papa stesso non ha mancato di sottolineare con forza – alla sua vocazione di pastore e non a sue ipotetiche competenze o visioni politiche. È così che vanno intese le sue ferme parole su temi che è poco definire scottanti, come quelli del lavoro, delle migrazioni da una sponda all’altra del Mediterraneo, della pervasività di poteri finanziari al servizio di «imperi sconosciuti», del moltiplicarsi e del deformarsi di interessi «multinazionali non universali» e quindi, inevitabilmente, non orientati al bene comune.
Semplici e severe le parole del Papa, rispettose delle competenze dei parlamentari europei cui venivano rivolte, ma nello stesso tempo dotate di una sottile carica provocatoria. Perché, ha sostenuto, per aver fiducia nell’uomo bisogna credere nella sua dignità e, per credere nella dignità umana, bisogna abbandonare il piano delle formule nobili, ma stereotipate per andare alla radice della cosa stessa. E la radice della dignità, afferma con forza Francesco, non la troviamo né nella cittadinanza, né nelle capacità economico-produttive delle persone, né meno che mai nelle loro molteplici abilità funzionali: dimensioni tutte rispettabili e anche ammirevoli, ma estrinseche. La dignità della persona dipende non da ciò che fa, ma da ciò che è, cioè dal suo radicamento nella trascendenza, dalla sua sacralità.
È facile immaginare con quale alzata di spalle certi "laicisti" possono aver ascoltato queste parole, ritenendole intrise di confessionalismo. Ma per il Papa il radicamento nella trascendenza è paradossalmente un valore antropologico prima che teologico; esso fa riferimento al prioritario carattere relazionale della persona, che è tanto più se stessa quanto più si scopre e si rivela fragile. È nella solitudine degli anziani, dei migranti, dei giovani smarriti davanti alle minacce del futuro che si rivela definitivamente la dignità della persone e la profonda carenza di umanità di quella «cultura dello scarto», di quel «consumismo esasperato» e di quell’esaltazione di un funzionalismo cieco ai valori che sono così pervasivi nel nostro tempo.
È per questo che lo stesso riferimento alla famiglia e al bene umano che in essa si incarna, che si colloca al centro del discorso del Papa, non ha un prevalente rifermento religioso-confessionale, ma antropologico. La famiglia «unita, fertile e indissolubile» è il luogo della stabilità, di cui hanno bisogno giovani e anziani, di cui ha bisogno il sistema intergenerazionale di trasmissione di valori e di cultura, che mostra come la verità ultima dell’uomo non risieda nell’«io», ma nel «noi».
Il discorso di papa Bergoglio si chiude con un appello perché l’Europa consolidi la propria identità: un’identità che deve essere «buona», perché radicata nella pace, nella concordia, nell’amicizia, nell’apertura a Dio, perché – insiste papa Francesco citando papa Benedetto – «è l’oblio di Dio e non la sua glorificazione, a generare la violenza». È per questo che l’insistenza da parte del Papa sull’«anima buona» dell’Europa non è segno di ingenuo utopismo; è piuttosto un ammonimento, dolce e severo nello stesso tempo, a riconoscere l’unico possibile baricentro del nostro continente.