lunedì 3 dicembre 2012
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Il titolo del Forum, parlando di «opportunità», ha messo il segno positivo sui nostri lavori ed è un atteggiamento che condivido, ma che non esime dal tener conto delle problematicità del fenomeno della mondializzazione o globalizzazione. La stessa Caritas in Veritate ne dà un’interpretazione positiva al n. 42, citando una frase di Giovanni Paolo II: «La globalizzazione a priori non è né buona né cattiva, sarà ciò che le persone ne faranno». La mondializzazione è una tendenza di sempre, ma oggi sta raggiungendo il mondo intero con un’intensità nuova. Si discute molto sui molteplici fattori di questa novità: personalmente ritengo che il fattore decisivo per questa fase sia lo sviluppo scientifico e tecnologico, che ha aperto nuove possibilità anche all’economia. Perciò la domanda di fondo verte sul rapporto della scienza e soprattutto della tecnica con l’uomo come soggetto. C’è un’idea diffusa del prevalere e dell’autonomizzarsi della tecnica. La Caritas in Veritate e anche il nostro Forum sono state in controtendenza. La Caritas in Veritate scrive: «La tecnica è un fatto profondamente umano, legato all’autonomia e alla libertà dell’uomo. Nella tecnica si esprime e si conferma la signoria dello spirito sulla materia» (n. 69). Ma è proprio così? Vi propongo una mia piccola riflessione, senza pretese. Forse è troppo semplice dire che la tecnica si occupa di mezzi e non di fini. Ha infatti un suo «fine intrinseco»: il potere legato al sapere (scientifico), da Bacone in poi. Il potere, come il sapere, è una finalità umana primordiale. L’uomo vuole potere e vuole sapere. Il potere, però, a differenza del sapere, che è anche un fine in se stesso, sembra essere per sua natura ordinato a fini ulteriori, fosse anche soltanto l’affermazione di sé. Tra questi fini ulteriori, molto rilevanti sono quelli economici, quelli politico-militari, ma anche la salute e la qualità della vita e in genere lo sviluppo umano, personale e collettivo, che sempre sottintende però un’interpretazione dell’uomo. A sua volta, questa interpretazione non può prescindere dalle grandi alternative, come quella fra l’emergere o il ridursi dell’uomo alla dimensione della natura. Sembra vero dunque che la tecnica è legata alla libertà dell’uomo. C’è una reciprocità, un legame intrinseco.Tornando alla globalizzazione, penso anch’io col professor D’Agostino e col cardinal Scola che la sua anima valoriale sia la comunicazione. Il cardinal Scola, nel suo recente intervento a Westminster, ha parlato di «narrarsi e lasciarsi narrare in vista di un riconoscimento reciproco», aggiungendo che non può essere preso come un dato scontato bensì «come il frutto di una scelta». In concreto però altrettanto originaria della tendenza alla comunicazione è la tendenza all’affermazione della propria identità, tendenza che non è da assimilare in maniera frettolosa con la chiusura in se stessi, avendo a che fare anzitutto con la realizzazione del soggetto, personale e collettivo, nella sua ineliminabile e positiva originalità. La dialettica tra comunicazione e identità sembra essere parte costitutiva dei processi di mondializzazione, così come storicamente si pongono. Un contributo cattolico molto importante per padroneggiare questa dialettica è stato dato, anche sul piano concettuale, dal Concilio Vaticano II con la dichiarazione Dignitatis Humanae sulla liberta religiosa, che viene fondata sulla dignità della persona e non sulla non conoscibilità della verità in materia religiosa, e non quindi sull’indifferenza delle diverse religioni. In questo modo, almeno in linea di principio, si possono tenere insieme l’identità cristiana con la rivendicazione di verità che questa identità comporta e la comunicazione e il riconoscimento reciproco sul piano umano, sociale e politico (statuale e internazionale). Joseph Ratzinger, prima di diventare papa, ha scritto che la crisi del cristianesimo oggi è la crisi della sua rivendicazione di verità. Per questo in concreto dobbiamo condurre una lotta su un doppio fronte; da una parte col laicismo occidentale, che nega la pretesa di verità, e dall’altra parte con il tradizionalismo cattolico (o anche l’islam radicale e altre simili posizioni), che afferma la verità negando la libertà. Dobbiamo affermare nella storia questo concetto di libertà religiosa messo a punto dal Vaticano II. La radice della questione della libertà religiosa è nella necessità della convivenza e nel valore della comunicazione, che nel cristianesimo diventano l’imperativo centrale del comandamento dell’amore del prossimo come di se stessi. Il cristianesimo è inclusivo, e qui vorrei ricordare quanto scritto da Benedetto XVI nel suo primo volume su Gesù di Nazaret, che già nell’Antico Testamento la fede in Jahvé era legata alla solidarietà verso i più deboli. Nella presente situazione storica, questo contenuto centrale del cristianesimo sta diventando obbligante delle diverse religioni e visioni del mondo, come lo stesso Rémi Brague ha sottolineato di recente nel ricevere il Premio Ratzinger. Questo non è un dato acquisito nemmeno per i cristiani, ma è una sfida: soltanto il metterlo in pratica ci rende storicamente credibili. Ma anche la rivendicazione della propria verità, come verità oggettiva e salvifica per tutti, è costitutiva del cristianesimo ed è la base del suo universalismo missionario.
In ciò vi è un’analogia con l’islam, ma con la differenza profonda che per il cristianesimo la verità salvifica va proposta solo nella libertà e quindi non vi è contrasto con il comandamento dell’amore universale. La verità salvifica per il cristianesimo non è qualcosa di costruito da noi ma è qualcosa di ricevuto in dono e di escatologico. Perciò di per sé i processi di mondializzazione costituiscono davvero per il cristianesimo una grande opportunità di affermarsi storicamente come il loro miglior interprete. La vera domanda è se di fatto il cristianesimo sia in grado di fare questo, perché attua e mette in pratica realmente il comandamento dell’amore e la rivendicazione della verità salvifica. Tra le diverse forme di cristianesimo, mi sembra che il cattolicesimo sia quello meglio attrezzato per farlo: il protestantesimo infatti ha manifestato negli ultimi due secoli notevoli cedimenti nei confronti della modernità sotto il profilo dell’identità cristiana, mentre i cosiddetti «cristiani rinati» rimangono insidiati, almeno in qualche misura, dal rischio di chiusure settarie. D’altra parte l’ortodossia è più debole sul piano della missione universale, perché tende a concepirsi di fatto come la religione di alcuni determinati popoli. Questo non significa che non dobbiamo ricercare una sinfonia ecumenica, ma che abbiamo particolare responsabilità per tenere insieme l’identità e l’apertura universale. Si ripropone però la domanda se il cattolicesimo esistente, reale, tenga insieme effettivamente la comunicazione, l’amore universale e la rivendicazione della verità salvifica. Lo stesso Benedetto XVI ha denunciato infatti una divaricazione, in particolare nella sensibilità morale dell’odierno Occidente: da una parte le tematiche della pace e della giustizia per tutti, che appartengono profondamente alla tradizione cristiana, stanno diventando un insieme etico di grande forza, che però «costituisce per molti la sostituzione e la successione della religione». D’altra parte la morale della vita e della famiglia è oggi assai controversa e l’annuncio della Chiesa «si scontra con una consapevolezza contraria della società» (discorso ai vescovi svizzeri, 9 novembre 2006). La Caritas in Veritate può essere letta come il tentativo di superare questa alternativa, unendo la questione sociale e la questione antropologica. Così l’opportunità per i cattolici si rivela una vera opportunità, cioè qualcosa da cogliere che però può anche non essere colta. Faccio un piccolissimo cenno all’Europa: è un modello di governance per la mondializzazione, ma anche delle difficoltà e dei rischi insiti nel tentare di governare la globalizzazione. Il giudizio sull’Europa è per forza di cose double-face. La sua crisi attuale è strutturale, non soltanto dovuta ad alcuni errori. C’è qualcosa di più profondo; non so se andiamo verso il superamento di questi problemi o verso la loro accentuazione (si pensi alla dialettica tra l’Europa degli Stati e quella della moneta). Il governo mondiale è un concetto di estrema difficoltà, anche perché la politica si appoggia sempre sulla contrapposizione.
E i cattolici italiani? Sono evidentemente dentro a questa opportunità-sfida, con la responsabilità specifica che deriva dal loro ruolo e compito in Europa, «di difendere il patrimonio religioso e culturale innestato a Roma dagli apostoli Pietro e Paolo» (Giovanni Paolo II ai vescovi italiani, 6 gennaio 1994), ruolo a cui si aggiunge la loro forte presenza missionaria in Africa, Asia, America Latina. Dobbiamo prendere maggiore coscienza di questa responsabilità, che si esplica ad esempio nel sostegno ai cristiani perseguitati di oggi, su cui siamo troppo deboli. Il ruolo modesto dell’Italia come Stato sulla scena internazionale da questo punto di vista può non essere soltanto uno svantaggio, perché fa cadere tante diffidenze che una grande potenza suscita. C’è inoltre il grande problema dell’esistenza delle condizioni effettive per far fronte a questa responsabilità e anche della permanenza di tali condizioni, di fronte al rapido mutare del Paese e in particolare agli atteggiamenti delle nuove generazioni (mi riferisco anche al libro di Armando Matteo La prima generazione incredula). Mi sembra inutile azzardare previsioni e direi piuttosto che l’opportunità della mondializzazione rimane per noi una sfida non eludibile, di fronte alla quale dobbiamo cercare di essere all’altezza, confidando anzitutto sul primo, segreto ma decisivo, attore della storia: Nostro Signore, troppo spesso dimenticato in concreto anche da noi.
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